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Sono solo parole

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«L’ingegnere!»

Così aveva risposto sicura alzando il mento e guardando fisso negli occhi zio Arturo, che le aveva chiesto cosa volesse fare da grande.

L’uomo aveva riso di gusto, togliendosi la pipa dalla bocca, e aveva detto:

«Non puoi fare l’ingegnere, è un lavoro da maschi!»

Gli occhi di Elisa avevano assunto un’espressione confusa, mentre, con la logica cristallina dei suoi cinque anni, pensava caparbia che zio Arturo le stesse mentendo, che non era possibile fosse un lavoro da maschi, visto e considerato che lei, femmina, desiderava farlo.

Da quel momento Elisa ebbe la certezza che gli adulti mentissero. Una certezza che trovava nuove conferme ogni volta che la madre la rimproverava perché si era rotolata nel fango con i cugini, ogni volta che le davano del maschiaccio quando giocava a pallone con loro, ogni volta che dicevano al fratellino di non piangere come una femminuccia.

​

Chissà perché quella mattina, mentre guardava ipnotizzata le gocce di pioggia che si dissolvevano l’una nell’altra sul parabrezza della sua auto, le era venuto in mente zio Arturo e quell’episodio di venticinque anni prima. Chissà cosa direbbe di lei, ora. Ingegner Elisa Bellini, capo cantiere della PM srl, responsabile delle attività di produzione e del piano di approvvigionamento.

Come ogni mattina, parcheggiò l’auto nel posto assegnato. Aprì l’ombrello con uno scatto che fece volare via alcuni passeri dai cespugli di caprifoglio che delimitavano il cortile dell’azienda, spargendo il loro profumo tutt’intorno. Quel profumo le penetrava le narici ogni mattina ed era diventato una sorta di salvacondotto che sanciva il passaggio dal mondo astratto dei suoi pensieri a quello, concreto, operativo, del suo lavoro.

Passò il badge sul lettore elettronico, asciugandosi le mani bagnate di pioggia sul cappotto, salutò con un sorriso Margherita che stava innaffiando il grande ficus in reception, ed entrò in sala riunioni.

Erano già tutti seduti intorno al lungo tavolo in mogano che occupava quasi per intero la superficie della stanza.

La riunione di budget, presieduta dal dott. Caprarica, amministratore delegato dell’azienda, stava per iniziare.

«Pensavo che iniziasse alle nove, come mai siete già tutti qui?» – chiese sottovoce all’ingegner Merini seduto al suo fianco.

«Il dott. Caprarica ci ha chiesto di vederci dieci minuti prima che iniziasse la riunione. E come sai a lui è impossibile dire di no» – rispose Merini continuando a fissare i fogli davanti a sé, mentre cliccava a ripetizione sul tappo della sua penna a sfera.

«Buongiorno signori. Inizierei subito questo incontro, perché tra poco più di un’ora devo essere in aeroporto», esordì Caprarica, mentre Elisa sentiva che il profumo di caprifoglio veniva sopraffatto da quello, intenso e pungente, delle colonie degli uomini seduti intorno a lei.

«Chiederei in quest’ordine gli interventi di aggiornamento: ingegnere Barra, ingegner Merini, ingegner Grasso e signorina Bellini, grazie».

Quella frase la colpì come uno schiaffo in pieno viso.

Era già successo altre volte e lei si era sforzata di non badarci. “Sono solo parole”, sentiva il ritornello di quella canzone tornarle in testa, mentre cercava di ripeterlo come un mantra che calmasse il suo respiro.

Non dare problemi. Non te la prendere. Sei troppo sensibile. Sembra che tu abbia le tue cose. Andiamo, ci sono questioni più importanti di cui preoccuparsi!

A un tratto le sembrò che i suoi pensieri avessero polverizzato la diga con la quale cercava da sempre di trattenerli. Si sforzò di riportali indietro, inutilmente.

Lo so che il tuo no significa sì. Non ha gridato, lei lo aveva sicuramente provocato, chissà cosa gli aveva detto, devi stare zitta, zitta, zitta.

Con le parole si fanno le rivoluzioni. Le parole formano i pensieri. Chi aveva detto non conosco nulla al mondo che abbia potere quanto la parola? Doveva essere stata Emily Dickinson, ne era quasi certa.

Quello che non si nomina non esiste. Le parole sono fondamentali. Le parole creano la realtà.

«E ora la parola alla signorina Bellini. La prego di essere breve, perché gli interventi precedenti si sono dilungati e io tra pochi minuti devo andare in aeroporto».

La voce di Caprarica era impaziente, alcuni degli ingegneri guardarono l’orologio.

Elisa lasciò passare alcuni secondi. Molte teste si alzarono, puntando irritate verso di lei.

«Allora? Signorina Bellini ci siamo?» – incalzò Caprarica.

«Ingegnere. Ingegner Bellini, grazie».

La voce di Elisa era ferma, il suo sguardo tranquillo, l’odore di caprifoglio era tornato nelle sue narici. L’immagine del volto di zio Arturo le passò per un istante davanti agli occhi, subito dissolta da quella della lavagna magnetica che si apprestò a raggiungere per il suo intervento.

Limite di portata massima

Me ne sto qui, sventrato, al terzo piano di questo Grand Hotel Italia che mostra impietoso i segni del tempo. Inutile negarlo. La moquette rossa lisa in più punti, che una volta mi sembrava un fastoso red carpet, mi appare ora un oltraggioso fiotto di sangue. Mi perdonerete la metafora non proprio felice, vista la mia condizione. Potrei fare di meglio, ma insomma, ci siamo capiti.

Dicono che negli ultimi istanti si ripercorre a ritroso la propria vita. Cazzate. Un mese non basterebbe a ripercorrere metà delle cose che ho visto in quarant’anni di onorata carriera in questo posto. Onorata carriera. Ancora un luogo comune, mi scuserete, vista…inutile che mi ripeta.

La mia dipartita non fregherà niente a nessuno, forse solo un iniziale moto di sorpresa in Luigi De Lellis. Lui è uno che si affeziona al passato, forse perché ha dovuto cancellare il suo. E’ qui da due anni, a perpetuare il rito che l’ha reso un eroe agli occhi di molti, un traditore a quello di altri. In un’intervista raccontava che è soprattutto l’atmosfera morente dei laghi a dar vita ai suoi personaggi. Un contrasto interessante direi, se i miei pensieri non fossero distratti dalla mia attuale condizione, diciamo così, non proprio promettente. Ma in fondo sono un sentimentale e mi dispiaceva vederlo trascorrere tutte le sere al bar dell’hotel, forse per ridestare l’antico furore che lo ha portato a questa non vita, divorando il suo orizzonte e circoscrivendolo al fondo della bottiglia di gin.

Meno che mai sentirà la mia mancanza il deputato Bonprisco, che onora con la sua presenza il convegno di partito che ospitiamo ogni anno a novembre. Un ego sconfinato, foraggiato da una pletora di elettori adoranti e dalle amanti che si concede quasi stancamente. Lo ascolto ammirato quando si cimenta in menzogne sempre più ardite e in spiegazioni rocambolesche di cui, come il più abile dei burattinai, muove con maestria i fili. Mi piace quando al telefono la voce della moglie vomita sospetti, scompigliando la trama della sua rappresentazione, costringendolo ad alzare la posta per riannodare con sapienza l’ordito delle sue bugie. Ma novembre è lontano, e dovrò rinunciare a questo piacere perverso. Tant’è.

Dalla finestra vedo la notte schiarirsi. Tra un paio d’ore gli ospiti inizieranno a svegliarsi e sentirò in lontananza il rumore degli scarichi del wc, le docce che scrosciano, le porte che sbattono, il profumo di brioche (fragranti ve lo risparmio, tranquilli) salire dalle cucine.

Vi dico invece chi è che mancherà a me: la famiglia Bolsini. Avete presente una famiglia felice? Beh, loro lo sembrano. Due insegnanti, latino lei, filosofia lui. E Saverio, quindici, sedici anni. Sempre gentili, Saverio sorridente, rispettoso, buongiorno/buonasera a chiunque si trovi in reception. Saluti a voce ferma, non come quelli sputati a mezza bocca da certi ragazzi oggi. Peccato per quei tagli sugli avambracci. Quando pigia il diciottesimo piano, il movimento svela osceno il segreto di una paura di essere al mondo che chiede continui tributi alla sua sete.

Stanno arrivando. Sento i passi attutiti che si avvicinano. Devo lasciarvi, ma non mi viene in mente nessun commiato originale. Beh. We are going down.

Gustavo si sistema la livrea, passa davanti all’ascensore squarciato. Gli operai di lì a poco lo sostituiranno con un modello nuovo. Il portiere si vede per un attimo come lui. Addio vecchio mio, dice, sentendosi immediatamente stupido. Gli operai sono arrivati, Gustavo sorride malinconico.

Allontanarsi dalla linea gialla

Ho deciso. Prima della prossima stazione glielo dico. Devo solo trovare le parole giuste, pronunciate con tono rassicurante, un’espressione innocua, magari.

Provo il mio sguardo al finestrino, mi restituisce spietato un volto perplesso. Così non va. Non è questa la faccia che deve vedere quando le parlerò. Dai, un respiro profondo!

Mi guarda incerta, solo un attimo. È la prima volta che solleva lo sguardo dal libro. Fatta eccezione per quando si è alzata a prendere il cappotto dalla cappelliera per metterselo sulle gambe.

Un movimento veloce, ma è bastato per capire.

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Mi irrigidisco, siamo arrivati a Firenze, lei non dà segni di voler scendere. Non è questa la sua destinazione. Appoggio di nuovo la schiena al sedile, ho ancora un’ora e trentacinque minuti prima della prossima stazione. Raccolgo i pensieri, sorrido nella sua direzione, magari potrei chiederle se è mai stata a Firenze. Che domanda stupida. Per fortuna non ha alzato gli occhi verso di me, le mie mani strette a pugno non sarebbero uno spettacolo tranquillizzante. Cerco di scacciare dalla memoria le macchie viola e gialle che si rincorrono sulle sue braccia, dai polsi fino ai gomiti, in alcune parti puntellate di un rosso osceno, che sembra vomitare fiotti di paura.

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Forse mi sto lasciando suggestionare. Forse le notizie sui quotidiani di stamattina stanno offuscando la mia lucidità. Oggi non è più come un tempo, di queste cose si parla tutti i giorni, sono certa che saprebbe chiedere aiuto.

Indifferenza.

La parola mi schiaffeggia in piena faccia. Accartoccio la bottiglietta d’acqua, ormai vuota, con l’intento di suscitare una sua reazione. Imprimo più forza del necessario nel chiudere il porta-rifiuti in acciaio. La vedo serrare per un attimo le mascelle. Chissà quante volte deve averlo fatto, trattenendo anche il terrore. La guardo meglio: meno di quarant’anni, capelli ramati stretti in una coda di cavallo, maglioncino nero a collo alto, fede all’anulare sinistro, ogni tanto la sfiora, ritraendosi in uno scatto.

Sta’ zitta, non sono affari tuoi, ognuno è libero di scegliere come vivere. E come morire.

​

Intercetto il paesaggio dolce della Toscana che si moltiplica a gran velocità oltre il mio riflesso, ha iniziato a piovere, guardo ipnotizzata le gocce che si incalzano, dissolvendosi l’una nell’altra. Dissolversi. Chissà quante volte l’avrà desiderato. Chissà quante volte lo desideriamo tutti. Lascia stare, non impicciarti nelle vite degli altri. Non la conosci, non sai nulla di lei. E di certo ti sbagli. Forse. Ventitré punti di sutura sullo zigomo, diceva l’articolo di oggi. Ferri ardenti del camino. Un creativo, di sicuro. E al solito, i dibattiti di criminologi, psicologi, sociologi, politici.

​

Numeri da capogiro, è stato un raptus, falso, è tutta colpa della cultura patriarcale, ma finiamola con queste storie, le donne ormai hanno raggiunto la parità, il nostro partito si è impegnato duramente per questo, e allora che dire di quelle culture che le nascondono sotto un velo per tutta la vita? Dobbiamo inasprire le pene, dobbiamo fare prevenzione, il ruolo della scuola, e allora le famiglie, però anche loro, ribellarsi prima, no?

Il drammatico epilogo di una lunga serie di violenze, così titolava il giornale.

Un ultimo incontro, ti chiedo perdono, non accadrà più, il senso di colpa, sembrava l’uomo dei sogni, appariva così per bene, salutava sempre, lei gli avrà dato un motivo, perché non mi ha detto nulla, avrei potuto aiutarla, sono la madre, sono la sua migliore amica, sono la vicina di casa, aveva denunciato, lui aveva il divieto di avvicinarsi, lo Stato non ti tutela, di fronte a questi criminali non c’è Stato che tenga, la pena di morte, ecco cosa ci vorrebbe, è un problema che riguarda tutti, a me non potrebbe mai capitare.

Il mattatoio dei dibattiti televisivi. Mi riscuoto.

Sono dei mostri, il mostro è in ognuno di noi, no, non in tutti.

Basta, basta, basta! Sospiro rumorosamente, lei mi guarda per un istante. Troppo tardi, ho perso l’occasione, avrei potuto dirle, avrei dovuto…

Perché dovrebbe fidarsi di te? Sei un’estranea, cosa ti fa pensare che voglia parlarne con te? Parlare di cosa, sono tutte fantasie, tu non sai niente, non sai niente di niente.

La campagna toscana ha lasciato il passo a quella laziale, il cambio di scenario è prima impercettibile, poi più marcato, in un susseguirsi di verde che vibra di un dolore latente. È il mio dolore, che avvolge il paesaggio e mi rimbalza contro facendo rumore. Passa la signora con il carrello delle vivande. Caffè? Succo d’arancia? Qualcosa da mangiare? No, grazie, dico.

Lei, di fronte, accenna un lieve no con la testa. Lo sguardo si inchioda in basso, in un punto imprecisato tra le sue scarpe e il nulla. Quel no deve averle ricordato l’inutilità di altri no, forse detti ad alta voce, forse urlati. Oppure pensati in silenzio, rassegnati, come il movimento della signora con il carrello, che passa oltre. E vorrei farlo anch’io, liberandomi da questo torpore melmoso che mi avvolge e mi impedisce di parlare, di chiedere.

​

Chissà che lavoro fa. Se lavora. Chissà cosa sta leggendo dall’inizio del viaggio. Chissà se quando sono entrata nel vagone ha provato fastidio o sollievo. Fastidio di condividere il suo spazio con una sconosciuta, forse sollievo, una speranza fugace accarezzata per un attimo.

Il suono di una melodia mi fa trasalire. È il suo telefono. La vedo mentre lo cerca frenetica in borsa, apre la cerniera centrale, fruga convulsa, apre una tasca laterale, lo trova, lo prende con un sospiro, esita, passa il dito sullo schermo. Ciao, dice a voce bassa. La fronte corrugata, la mano libera che gratta contro il bracciolo, poi si sistema il collo della maglia e trattiene la mano sopra la spalla.

Ok, aggiunge in un soffio, va bene, nessun problema. Chiude la chiamata e resta con il telefono tra le mani quasi come non sapesse cosa farne. Poi lo ripone in borsa, piano, misurando i movimenti, attenta a non incrociare il mio sguardo. Nella testa ho ancora il motivo della sua suoneria, lo conosco, ma non riesco a ricordare cosa sia. Una melodia dolce, solenne, evocativa. Rompo gli indugi, glielo chiedo: “Molto bella la sua suoneria, so di conoscerla, ma non ricordo cosa sia”. Sussulta, mi guarda per qualche secondo, apre la bocca e la richiude, poi sussurra:

“È il Canone di Pachelbel.”

Ma certo, ora ricordo. È una delle melodie più usate come marcia nuziale.

Mi appiglio a questo embrione di dialogo: “Ah, ecco. Mi sembrava di conoscerla. L’ho scelta per l’ingresso in chiesa del mio matrimonio”- mento. Lei abbozza un sorriso sghembo, poi torna a guardare il suo libro.

Non mi arrendo. “Ricordo che ho passato settimane a scegliere la marcia nuziale. È buffo quanto tempo sprechiamo in cose inutili.”

“Vero”- mi concede, aggrappando lo sguardo al finestrino.

“Siamo quasi a Roma”- aggiungo. “Lei dove scende?”

“Cosa? Mi scusi, non stavo ascoltando.”

“Non importa, le chiedevo dove scende.”

“A Roma”- la sua voce è talmente flebile che stento a sentirla.

“Allora è quasi arrivata.”

Il suo sguardo si fa pietra.

Non posso mollare adesso.

“Io invece scendo a Reggio Calabria. Mi sono trasferita da tre anni a Milano per lavoro. Anche se, a dire il vero, non è un granché come lavoro. A volte penso che avrei fatto meglio a restarmene a casa” - sorrido incoraggiante. “Ma spesso il desiderio di cambiamento fa fare scelte sbagliate, non so se è mai capitato anche a lei.”

“Sì” - dice dubbiosa. Più risoluta: “Sì, è capitato anche a me.”

“Penso capiti a tutti, ma l’importante è che si possa rimediare, no?”

“Sì… rimediare”- sembra sovrappensiero.

Il treno rallenta, poi si ferma, mentre gli altoparlanti ci informano che sono in attesa del passaggio di un altro treno e che la corsa riprenderà al più presto.

“Cosa fa di bello a Roma?”- decido di affondare.

Mi guarda come se non mi vedesse, poi si alza. “Mi scusi, devo andare in bagno.”

Prende la borsa, ne estrae il telefono, dopo qualche passo torna indietro, appoggia il telefono sul sedile e si dirige verso la toilette.

Il treno non è ancora ripartito. Mi guardo intorno, nella carrozza ci sono altre tre persone. Un ragazzo con una felpa grigia e grandi cuffie sulle orecchie, il volume è talmente alto che riesco a sentire il martello ipnotico della musica che sta ascoltando. A due file di distanza un uomo anziano dorme, il suo respiro muove regolare il gilet a righe marroni che indossa sopra la camicia bianca, la cravatta allentata. In fondo al vagone una signora di mezza età, i tre sedili intorno a lei sono pieni di bagagli, borse della spesa da cui si intravedono dei contenitori in plastica con il coperchio azzurro. Forse vuoti, vista la facilità con cui ha sollevato le borse qualche minuto prima. Sta guardando assorta il telefono, sorride. Quando incontra il mio sguardo mi dice:

“I nipoti, la gioia della mia vita”. Le sorrido nervosa, lei non è ancora tornata dal bagno.

Dal finestrino scorgo un gregge di pecore, il movimento che fanno quando brucano l’erba è quasi invisibile, quando alzano la testa vedo il suono dei campanacci, senza sentirlo. Proprio mentre mi volto, la vedo arrivare. Resta in piedi accanto al mio posto, lo sguardo fuori.

“Pecore” - sorrido.

“Una è morta” - dice grave.

Seguo i suoi occhi con i miei, intravedo nel gregge una pecora sdraiata, immobile.

“Forse dorme”- dico turbata.

“No. È morta.”

Non so cosa aggiungere, lei resta in piedi, la mia testa vaga in cerca di qualcosa da dire.

“Non ce l’ha fatta a salvarsi” - aggiunge.

Ora. È il momento.

“È tutto a posto? Sta bene?”

Distoglie a fatica lo sguardo dal finestrino, quasi risucchiata.

“Mio padre è morto”- dice.

“Oh, mi dispiace.”

“Tre anni fa.”

“Ah. Mi dispiace”- ripeto confusa.

“Immagino che certi dolori non passino mai”- aggiungo mio malgrado con un tono interrogativo.

Mi guarda come se mi vedesse per la prima volta.

Il treno riprende la corsa, non ho molto tempo.

“Vedo che è sposata, è importante avere qualcuno vicino in questi momenti.”

“Com’è Reggio Calabria? Non ci sono mai stata”- mi chiede come se non avesse sentito.

“Ah, allora deve rimediare! È una città bellissima, piena di sole, con un lungomare spettacolare, dove si mangia il miglior gelato al bergamotto del mondo. Mi piacerebbe farle da guida se decide di venirci.”

Sorride, lo sguardo assente si anima per un istante, prima di essere cassato da un fugace senso di colpa.

“A proposito, io mi chiamo Marianna, lei come si chiama?” – le chiedo.

“Emma”- risponde afferrandosi un polpastrello.

“Adoro questo nome, è il titolo di uno dei miei romanzi preferiti, Jane Austen, conosce?”
“No, ma conosco Emma Bovary.”

“Beh, diciamo che è un genere un po’ diverso. Trovo che il romanzo di Flaubert sia molto triste. Voglio dire, lei non fa una bella fine, no?”

“Direi di no. Ha fatto le scelte sbagliate.”

“Forse, ma non si può bruciare la propria vita per una scelta sbagliata.”

Lei sembra ritirarsi dietro un silenzio inattaccabile. Tra pochi minuti saremo a Roma.

“Le manca molto suo padre, immagino.”

“Sì…lui era l’unico che poteva…che avrebbe potuto…” – sembra stia cercando le parole giuste. “Eravamo molto legati.”

“Sua madre?”

“È morta quando ero piccola. Sono figlia unica.”

“Deve essere dura quando vengono a mancare i propri punti di riferimento, soprattutto nei momenti difficili.”

Si copre le mani con le maniche della maglia, gli incisivi affondati nel labbro inferiore, guarda il monitor dietro le mie spalle.

“Siamo quasi a Roma”- sussurra. “Quanto manca per Reggio Calabria? Immagino che il suo viaggio sia ancora lungo.”

“Eh, sì. Quasi sei ore.”

“Penso che Emma Bovary sia stata una di quelle persone incapaci di stare al mondo” – dice all’improvviso.

“Forse ha ragione” – rispondo in cerca di qualcos’altro da dire, ma lei riprende:

“Quando ero piccola mio padre mi diceva che da grande avrei potuto fare tutto quello che volevo.”

“Deve essere stato un buon padre.”

“Io invece non credo di essere stata una buona figlia. Pensi che lo facevo infuriare dicendogli che da grande sarei diventata suora.”

“Davvero?”

“Sì, non ho mai avuto la vocazione, ma in un certo senso ero affascinata dall’idea di un tempo sospeso, come quello che respiravo in chiesa, quando mia nonna mi portava con lei. Mi è sempre piaciuto il profumo dell’incenso. Ho letto da qualche parte che tutta la nostra vita non è altro che la ricerca affannosa della nostra infanzia.”

“Immagino che sia così, se ha avuto un’infanzia felice.”

“Oh, non intendevo quello. Mi riferivo al senso di invulnerabilità che si prova da bambini, quando non pensi mai che possa accaderti qualcosa di brutto. E poi i bambini non hanno sensi di colpa.”

“Almeno non quelli che ti fanno vivere come se dovessi espiare dei peccati mortali” – dico senza capirne del tutto la ragione.

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Siamo in arrivo, in anticipo, a Roma Termini.

La voce calda dello speaker mi fa trasalire. Mi sporgo in avanti, sbatto contro il tavolino, vorrei dirle qualcosa, trattenerla. Ma lei procede tranquilla: “Poi naturalmente, crescendo, ho cambiato idea. Ma i luoghi religiosi continuano ad affascinarmi. Non lo trova strano?”

I passeggeri si affrettano all’uscita, attendo il momento in cui realizzerà che è la sua fermata. Quando l’ultimo passeggero scende, aspetto che il treno riparta prima di chiederle: “Non doveva scendere a Roma?”

“Oh… sì. Forse.”

Il suo sguardo è fermo.

“Sono contenta che non l’abbia fatto.”

Mi guarda, stanca. Il cielo si sta schiarendo.

Il rumore del treno che sfreccia in direzione opposta mi fa sobbalzare. Quanto tempo ho dormito? Mi riscuoto, mi stropiccio gli occhi, raddrizzo la schiena. Fisso sgomenta il posto davanti a me. Vuoto. Il treno si ferma, siamo a Paola. Mi faccio largo tra i passeggeri in uscita per guardare attraverso la porta aperta. Intravedo una coda di cavallo ramata tra la folla. La voce dello speaker scandisce: Attenzione, allontanarsi dalla linea gialla.

Un giorno bellissimo

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Chissà a cosa pensa, se pure pensa a qualcosa, quando entra furtivo nella mia stanza e resta in piedi, dietro di me, a controllare il susseguirsi veloce delle lettere che compaiono sul monitor del mio computer.

Ricordo che i primi tempi si prendeva il disturbo di fingersi impegnato in interminabili telefonate.

Ora probabilmente ritiene che il suo status di capo lo renda immune da qualsiasi indulgenza alla buona educazione. Chissà cosa direbbe nonna Rosa, se fosse ancora viva, qualora le raccontassi dello squallido ufficio dove trascorro dieci ore al giorno, tutti i giorni, da due anni. Chissà cosa direbbe delle macchie di umidità che sporcano il muro, dei bagni costantemente imbrattati - il personale delle pulizie costa- , del lavoro, sempre uguale, sempre lo stesso, che svolgo da settecentotrenta giorni.

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Lo so: ora mi farete notare che due anni di lavoro non sono settecentotrenta giorni, perché al conteggio bisogna sottrarre i weekend. E’ vero. Ma, a parte che lavoro anche di sabato, la domenica sono così annichilita da una sorta di torpore mortale da avere la sensazione di essere ancora seduta al computer ad inserire dati. Ah, dimenticavo: è questo il mio lavoro. Inserire dati. Nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, cellulare (campo facoltativo), indirizzo e-mail (campo obbligatorio). Decine, centinaia, migliaia di schede anagrafiche ogni giorno. I primi mesi, per tenermi sveglia, mi sforzavo di immaginare per ognuno  di questi nomi un volto, una famiglia, una vita sentimentale. Ma questa intensa attività clandestina a fine giornata mi lasciava sfinita, quindi ho presto rinunciato, anche perché doveva evincersi qualcosa dalla mia espressione, visto che un giorno, senza alcun motivo evidente, il capo mi ha fatto una terribile sfuriata, ricoprendomi di epiteti irripetibili. Quando urla in quel modo, le nuove arrivate (ne arrivano sempre) si spaventano e ci guardano in cerca di qualche segnale che le aiuti ad allineare il loro stato d’animo sul pianale di emozioni condivise. L’impassibilità mia e delle mie colleghe, allora, si accentua: è un modo silenzioso per dir loro di non preoccuparsi, che va tutto bene, che passerà presto. E invece, nonna, non va tutto bene.

A volte, specie quando il giorno delle paghe non ci viene corrisposto lo stipendio, e guai a chiedere spiegazioni, le lacrime, quasi dotate di volontà propria, mi spuntano negli occhi, e lo sforzo di non farle colare giù mi impegna in una battaglia di cui mi sento unica sconfitta. Allora, per darmi coraggio, passo in rassegna mentale tutti gli articoli del Codice civile in materia di lavoro. Chissà cosa diresti, nonna, se mi vedessi lavorare qui, mentre il mio capo mi urla addosso che sono un’idiota, cosa diresti, nonna, se sapessi che ho messo in un cassetto la mia laurea in giurisprudenza perché cinquecento euro al mese mi servono per non gravare sulla pensione di mamma. A lei non racconto queste cose, non voglio che si preoccupi per me, e allora invento divertenti ed improbabili cause legali che lo studio presso cui collaboro mi affida con fiducia. Non le ho mai detto che ho lasciato lo studio due anni fa, quando è morto papà, perché le promesse di una regolare retribuzione sono rimaste tali. E quando penso alla mamma, immediatamente la mia rabbia si stempera in una docile rassegnazione, dove vanno a finire tutti i propositi di rivalsa e le intenzioni di far valere i miei diritti.

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Però nonna, lo sai che qui dentro c’è anche del buono? Alcune mie colleghe sono fantastiche e due di loro sono diventate mie amiche: Carla e Margherita. La nostra è una solidarietà fatta di sguardi, perché sul lavoro non possiamo parlare tra di noi e non abbiamo diritto a pause, ma quando usciamo di qui parliamo, e come se parliamo. E allora ci facciamo forza l’una con l’altra e ci raccontiamo i nostri sogni, anche se Margherita si infuria quando parlo di sogni: lei preferisce parlare di legittime aspirazioni, perché “chiamare sogni i propri desideri significa inconsciamente attribuir loro l’etichetta di irrealizzabilità”. Margherita è così, usa le parole in maniera mai casuale, d’altronde è una giornalista e sogna, anzi, aspira, a scrivere un giorno non troppo lontano per una grande testata.

Quel giorno, la canzona Carla, Margherita sarà un’importante corrispondente di guerra e lei un’acclamata attrice di teatro. E io quel giorno sarò in prima fila ad applaudirla e a ricordarle che i sacrifici fatti all’accademia di arte drammatica sono valsi a qualcosa.

E tu, cosa vorresti fare, Rosa? Quando me lo chiedono io alzo le spalle, ma in fondo al cuore so che vorrei fare l’avvocato, tutelare gli interessi dei lavoratori e ridare dignità a tutte quelle vite ricoperte di foglie morte come la mia. E quel giorno, nonna, sarà un giorno bellissimo.

Controtempo

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Lo tiene dentro, assopito dall’atmosfera ovattata che avvolge le cose e le persone, come un sollievo trattenuto dopo un pericolo scampato. Deve essere questa, pensa, la sensazione che si prova dopo lo scoppio di una bomba, quando la paura lascia il posto all’incredulità di trovarsi ancora vivi, e con circospezione si esce dal proprio rifugio, un passo alla volta, abituando gli occhi alla luce, per verificare l’entità dei danni, i morti, i feriti, le case crollate. Deve essere questo il silenzio che detona dopo l’esplosione e che riempie le orecchie con il suo scorrere assordante, mentre si cerca di mettere a fuoco quello che resta. E quello che non c’è più.

Ora che non si sente più cantare dai balconi, ora che l’euforia disperata della solidarietà come tentativo di riscatto da una condizione incomprensibile è finita, ora che la vita è tornata a scorrere come prima. Come prima?

Sono le quattro.

A chi glielo chiedesse, non saprebbe dire quando è successo. A un certo punto ha cominciato a non sentire più le cose. A vederle distanti, deformate da una lente che ne amplifica i dettagli, fino a renderle sfocate, indistinte, inutili. Poi è accaduto con le persone. Tutte quelle parole, quegli interrogativi che all’inizio si erano resi necessari per dare un senso all’inspiegabile, si sono ora avvitati su se stessi, rincorrendosi in una spirale di non senso. Può quasi sentire sulla pelle la patina opalescente di estraneità che le si è depositata addosso. Nessun dolore, nessun dispiacere, nessuna gioia. Tutta quell’adrenalina, quel fervore immotivato, quelle lezioni di vita da apprendere, la certezza di diventare migliori. Una colossale menzogna.

Ma lei non ha proclami da fare, istanze di superiorità da rivendicare. Il tempo, prima sospeso, ha ricominciato a ticchettare sul quadrante della vita, i colori a rigurgitarsi per le strade, gli abbracci a sovrapporsi ai ricordi dei piaceri interrotti. Vede gli spazi farsi vertigine e ripercorre bulimica gli ultimi due anni, i volti e le voci di chi non tornerà, gli squarci delle assenze a cui l’anima, sfinita, non fa più da argine.

Le parole del prete la strappano per un istante dal torpore, prima di adagiarsi morbide sul pianale del già noto.

Carissimi, siete venuti insieme nella casa del Padre, perché la vostra decisione di unirvi in matrimonio riceva il suo sigillo e la sua consacrazione davanti al ministro della Chiesa e davanti alla comunità. Pertanto vi chiedo di esprimere le vostre intenzioni.

Gli sposi si prendono per mano. Ancora parole, suoni familiari e indistinti. Il lungo velo ammanta i pensieri di speranza, ma non ricorda più di cosa. Il Cristo appeso alla parete saetta come una scheggia l’immagine di un’enorme piazza deserta, bagnata dalla pioggia, il mondo immobile, il silenzio irreale, squarciato dall’urlo delle ambulanze, di fronte a uno sguardo ligneo e impassibile. Ricorda come una vertigine l’uomo che invocava e barcollava al centro della piazza, vestito di bianco come la sposa sull’altare.

Una coltre di riso disperde i pensieri. Poi voci tristi cantano allegre, come quelle che si udivano dietro le tende, dipingendo una felicità in bianco e nero. Le mani intrecciate sul coltello d’argento che fende la torta a più piani. Gli sposini di zucchero in cima guardano disperati con i loro occhi assenti il vuoto che si estende cieco. È un istante, e già vede decine di abiti eleganti disporsi in fila per salutare la coppia. Di nuovo auguri, tanta felicità, sei la sposa più bella che abbia mai visto. Una schiera ondeggiante di gambe, poi tutti in macchina, le auto disposte ordinatamente una dietro l’altra, come quei grossi camion verdi coperti da un tendone, con il loro carico di morte e di pietà.

Sui tavoli, i resti disfatti di una gioia già passata, le mani guantate che ne eliminano le tracce. Il vento gonfia le tende, come palloni che stanno per scoppiare. Nelle narici il profumo lezioso dei confetti, i petali di rosa sotto le sue scarpe tracciano un percorso di sangue. Lo segue paziente, fino alla balconata di marmo. Le venature grigie come quelle delle lapidi, il vento le restituisce il ricordo dell’odore dei cipressi. Sotto di lei il vuoto. Sarebbe così facile, durerebbe solo un attimo. Il suo vestito che si apre osceno come un fiore violato, i capelli che l’avvolgono come un sudario, il sorriso stupito sul volto. Sarebbe così facile, come apporre il sigillo identitario alla scena madre di un dramma dell’assurdo che gli attori si ostinano a recitare, anche se hanno dimenticato le battute. Forse quel gesto arresterebbe il tempo, un tempo che avrebbe già dovuto fermarsi. Forse restituirebbe il senso alle cose. Forse sarebbe fagocitato dal nulla. Lo sente salire veloce, inarrestabile, violento, con la falcata di chi non riuscirà a fermarsi. L’urlo che la travolge è la frana che lascia dietro di sé una morte di fango e detriti, macerie di ricordi, mattatoio di speranze. La schiaccia e la libera, la purifica e l’assolve. Un desiderio incompiuto di morte e di vita nella testa. Le mani stringono il bouquet di peonie bianche. Si volta per tornare a casa.

Le lancette avanzano ottuse. Sono le quattro e un minuto.

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Chi sono

Mi chiamo Michela Bilotta, sono nata a Salerno, ma vivo da oltre dieci anni a Bruxelles, dove mi occupo di comunicazione e ufficio stampa. Ho pubblicato guide turistiche, racconti, manuali per concorsi a cattedra.  La Metrica dell'oltraggio è il mio primo romanzo.

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